1 MORTE


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La morte è la conclusione definitiva della vita terrena: con essa terminano in maniera definitiva tutti i processi vitali[1]. La morte va concepita come la fine di un processo piuttosto lungo di estinzione.

Con la morte comincia la vita ultraterrena, la cui situazione beata o infelice è determinata dalle scelte libere della persona.
Nella Bibbia

La Bibbia prospetta la morte e la sopravvivenza dopo di essa in vari modi, non tutti armonizzabili tra loro. La rivelazione biblica, lungi dal distoglierne lo sguardo per rifugiarsi in illusori sogni, la guarda lucidamente in faccia.
Antico Testamento

Nell'Antico Testamento la morte fa parte dell'essenza dell'uomo: il Dio vivo, che per sua natura possiede la vita e ne è la fonte (Sal 36[35],10), la concede e la toglie, cosicché tutto l'uomo - e non solo il corpo - muore. Tale concezione appare nel racconto jahvista della creazione (Gen 2,4b-7; 3,19).

Il termine usato nell'Antico Testamento per indicare lo stato di chi è morto è sheol (in greco Ades, "Ade"; l'italiano rende tali termini con "inferi"): esso viene pensato esistente all'interno della terra, ed è concepito come una fossa comune dell'umanità (cfr. Gb 10,21; 17,13-16; 3,17-19). Scendere o essere sepolti nello sheol significa quindi anzitutto essere abbandonati in potere della morte. Allo sheol viene associata l'idea di una sopravvivenza dopo la morte, ma tale esistenza umbratile non suscita nessuna speranza. L'uomo ebraico continua a vivere nei suoi figli, che portano il suo nome, e nel popolo di cui è membro; per questo può morire tranquillo[2].

In un secondo momento della rivelazione veterotestamentari viene approfondita la riflessione sulla bellezza della vita e dei beni della terra, e questa meditazione viene inserita nella visione religiosa propria dell'alleanza. La vita è l'essenza di Dio, e YHWH è colui che fa vivere tutti i viventi e che dà la vita all'uomo. Come conseguenza sorge una visione negativa della morte, che viene ad essere l'opposto della vita: essa decompone lo stesso rapporto con YHWH: i morti non possono lodare YHWH, e Dio stesso dimentica i morti, una volta che hanno passato le porte dello sheol (Sal 6,6; 30[29],10; 88[87],12-13). La morte non è più "naturale", deve essere spiegata, perché crea difficoltà nella visione della fede. In opposizione alla credenza mesopotamica che attribuiva la morte alla gelosia degli dèi, Israele collega la morte a una responsabilità morale dell'uomo, che disobbedisce a Dio (Gen 2-3). In questa ottica la morte è vista come il male, è l'opposto di Dio. Il carattere di pena proprio della morte, così chiaramente affermato in Gen 3,19, non si osserva altrove nell'Antico Testamento.

Alla luce della morte nasce una particolare meditazione sulla vita umana: la morte illumina la vita e ne rivela il senso. La vita è allora un bene fragile e fuggitivo, un'ombra, un soffio, un nulla (Sal 39[38],5-7; 89[88],48; Gb 14,1-12; Sap 2,2-5); è una vanità perché la sorte finale è uguale per tutti, e unisce perfino la sorte dell'uomo a quella dell'animale: "Tutti vanno a un solo luogo; tutti vengono dalla polvere, tutti ritornano nella polvere. Chi può sapere se il fiato dell'uomo sale in alto, mentre quello della bestia scende in basso, nella terra? (Qo 3,20-21).

Infine, due prospettive portano a concepire una speranza oltre la morte:

    da un lato l'allargamento progressivo della potenza di Dio porta Israele a pensare che Dio può dominare anche la morte e lo sheol;
    dall'altro la morte definitiva e totale del giusto mette fortemente in crisi la fede nell'alleanza e spinge a credere che YHWH non abbandonerà il suo servo: YHWH deve in qualche modo conservare coloro che gli sono fedeli nella comunione con lui; diversamente non ci sarebbe alcuna differenza tra rettitudine ed empietà (Sal 16[15],10; 49[48],16; 73[72],23-28).

Quando questa speranza si esprime in tutta la sua maturità, essa prende l'unica forma possibile per l'antropologia ebraica: la risurrezione della carne. Questa speranza interessa dapprima solo Israele (Ez 37) o il servo sofferente (Is 53,10-12), per estendersi poi nella prospettiva messianica escatologica che riguarda tutti gli uomini (nuova creazione: Is 26,19; 25,8; Dn 12,2). Neppure questa prospettiva finale sembra però cambiare il carattere contingente della morte, che per tutto l'Antico Testamento rimane fondamentalmente la fine dell'uomo.
Nuovo Testamento

La concezione dell'uomo nel Nuovo Testamento non è dissimile da quella dell'Antico; pertanto anche la concezione della morte non se ne distacca.

Nel Nuovo Testamento però la rivelazione converge verso il mistero della morte di Cristo: alla luce di essa tutta la storia umana appare come un gigantesco dramma di vita e di morte[3]:

    fino a Cristo e senza di lui c'era il regno della morte;
    Cristo, con la sua venuta e con la sua morte trionfa sulla morte stessa: da quest'istante la morte cambia senso per la nuova umanità che muore con Cristo per vivere con lui eternamente.

L'umanità sotto il potere della morte

Sono soprattutto le lettere paoline e quelle deuteropaoline ad addentrarsi nella teologia della morte; in esse viene presentata, alla luce del racconto delle origini, come una conseguenza del peccato: per la colpa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la morte (Rm 5,12.17 {pb|1Cor|15,21}}). Da allora tutti gli uomini "muoiono in Adamo" (1Cor 15,22), e la morte regna sul mondo (Rm 5,14).

Ciò che conferisce forza al potere della morte è il peccato, descritto come il "pungiglione della morte" (1Cor 15,56, che cita Os 13,14), perché la morte ne è il frutto, il termine, il salario (Rm 6,16.21.31). E il peccato ha nell'uomo un complice, la concupiscenza (Rm 7,7): essa fa nascere il peccato, che a sua volta genera la morte (Gc 1,15); la carne è quella il cui desiderio è la morte (Rm 7,5; 8,6); con ciò il corpo, creatura di Dio, è diventato "corpo di morte" (Rm 7,24).

In questo dramma, invano la legge è entrata in scena per opporre una barriera a questi strumenti della morte che operano nell'uomo: il peccato ha preso possesso anche della Legge per sedurre l'uomo e procurargli più sicuramente la morte (Rm 7,7-13). Dando la conoscenza del peccato (Rm 3,20) senza dare la forza di trionfare su di esso, condannando il peccatore a morte in modo esplicito (cfr. Rm 5,13-14), la legge è divenuta la "forza del peccato" (1Cor 15,56); per questo il ministero della legge, che in sé era santa e spirituale (Rm 7,12.14), rimanendo semplice lettera che non conferiva la potenza dello Spirito Santo è stato un ministero di morte (2Cor 3,7).

Senza Cristo dunque l'umanità era immersa nell'ombra della morte (Mt 4,16; Lc 1,79; cfr. Is 9,1); per questo la morte fu, in ogni tempo, una delle componenti della sua storia, e rimane una delle calamità che Dio invia sul mondo peccatore (Ap 6,8; 8,9; 18,8).
Cristo e la morte
Exquisite-kfind.png  Per approfondire, vedi la voce: Morte di Gesù.

L'aspetto più significativo della teologia neotestamentaria della morte è la sua interpretazione alla luce di Cristo e nell'ottica della salvezza portata da lui. Il Figlio di Dio, fattosi uomo (Gv 1,14; Fil 2,7) e divenuto simile agli uomini in tutto eccetto il peccato (Eb 2,17; 4,15), fa sua e subisce la morte come essi.

La risurrezione rivela il valore salvifico della morte di Gesù: ormai essa viene compresa, attraverso varie immagini e vari modelli di pensiero, come una morte espiatrice in rappresentanza degli uomini. Nella sua risurrezione Cristo ha annientato e superato la morte dell'uomo, come le guarigioni che Gesù aveva operato durante il suo ministero pubblico prefiguravano; la sua risurrezione, poi, diventa speranza della risurrezione di tutti. San Paolo conia al riguardo la terminologia del primo e del secondo Adamo: se attraverso l'Adamo del Genesi la morte è entrata nel mondo, attraverso il secondo Adamo, Cristo, la potenza della morte è definitivamente superata (1Cor 15,20-22). Essendo Cristo risorto per primo (1Cor 15,23), tutti coloro che gli appartengono hanno per mezzo di lui la garanzia di risorgere dai morti.

Paolo concepisce poi il morire del cristiano come un morire "con Cristo" (Rm 6,8), "nel Signore" (1Cor 15,18). Nel Battesimo l'uomo è reso partecipe della potenza salvifica della morte di Gesù (Rm 6,3-5). La sua virtù, che supera il peccato e la morte, viene comunicata ai credenti nella cena del Signore (1Cor 11,26). Il superamento definitivo della morte è atteso per la fine dei tempi (1Cor 15,26).

Con la parusia di Cristo la morte sarà definitivamente messa al bando (Ap 20,14; 21,4).
Nella Tradizione cristiana

Quando la Tradizione cristiana si incontra con l'ellenismo e con l'idea greca di uomo, la sua concezione della morte matura e si trasforma: la morte inizia a essere concepita come separazione dell'anima dal corpo; di conseguenza la sopravvivenza dopo la morte viene concepita allora come ulteriore esistenza dell'anima separata dal corpo. Tuttavia l'antropologia biblica e la speranza nella risurrezione dei morti portano a una profonda rielaborazione della visuale greca della morte[4].

In tale processo di elaborazione e trasformazione del concetto di morte, il magistero, basandosi sulle affermazioni bibliche ha preso posizione su vari aspetti della concezione della morte e della sopravvivenza dell'uomo dopo di essa:

    Il II Concilio di Orange (529) ribadisce, citando Rm 5,12, che la morte è conseguenza del peccato di Adamo[5].
    Varie decisioni magisteriali del medioevo riguardanti il destino dell'uomo dopo la morte concepiscono questa come la separazione dell'anima dal corpo, ma anche come fine dello stato di pellegrinaggio, cosicché la vita sulla terra decide in maniera definitiva la sorte eterna[6].
    Il Concilio di Trento ribadisce nel 1546 l'affermazione del II Concilio di Orange nel decreto sul peccato originale[7].
    Il papa Pio V, nel censurare nel 1567 varie proposizione di Michele Baio, afferma per converso che l'immortalità del paradiso terrestre era un dono della grazia e non uno stato naturale dell'uomo[8].

Nel XIX secolo ebbe gran risonanza la teoria della morte totale. Tale teoria, certamente non corretta, fu sostenuta da vari teologi protestanti, tra i quali Paul Althaus, Karl Barth, Oscar Cullmann, Werner Elert; essi affermavano che la morte colpisce tutto l'uomo, anima e corpo, respingendo quindi l'affermazione tradizionale dell'immortalità dell'anima. Dopo la morte, secondo tali teologi, nulla sopravvive[9]; quello che permane è la fedeltà di Dio. La risurrezione dei morti è quindi una nuova creazione sulla base della memoria che Dio ha dell'uomo, ed è quindi una risurrezione di tutto l'uomo, corpo e anima.

In tempi recenti, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato il 17 maggio 1979 un documento Su alcune questioni concernenti l'escatologia: in esso viene ripreso l'insegnamento tradizionale della Chiesa riguardo alla morte, alla risurrezione dei morti, alla sopravvivenza dell'anima, alla "manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo", agli stati definitivi del paradiso e dell'inferno nonché alla purificazione temporale del purgatorio; insegna inoltre che le spiegazioni teologiche della morte devono preservare il privilegio che Maria ebbe nella sua Assunzione, che è "l'anticipazione della glorificazione riservata a tutti gli altri eletti"[10].
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica

Il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta il mistero della morte nella trattazione dell'articolo del Credo sulla risurrezione della carne, ai nn. 1005-1014. La morte, vissuta con Cristo è la via per risorgere con lui; è un "essere sciolto" (Fil 1,23): l'anima viene separata dal corpo, con il quale sarà riunito il giorno della risurrezione dei morti[11] (n. 1005).
La realtà della morte, trasformata da Cristo

Se la morte è naturale, per la fede essa è salario del peccato[12] (Rm 6,23); per coloro che muoiono nella grazia di Cristo essa non è il sommo "enigma della condizione umana"[13], ma "una partecipazione alla morte del Signore, per poter partecipare anche alla sua risurrezione".

La morte segna il termine della vita terrena. Ciò comporta un'urgenza per la vita dell'uomo, che ha un tempo limitato per realizzare la propria esistenza (n. 1007).

La morte è stata trasformata da Cristo. Gesù, il Figlio di Dio, ha voluto subito la morte, propria della condizione umana e ne ha fatto "un atto di totale e libera sottomissione alla volontà del Padre suo. L'obbedienza di Gesù ha trasformato la maledizione della morte in benedizione" (n. 1009).
Il cristiano e la morte

In forza di ciò si può affermare che, "grazie a Cristo, la morte cristiana ha un significato positivo. Vengono citati due passi di San Paolo:

    "per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno" (Fil 1,21);
    "certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui" (2Tim 2,11).

Mediante il Battesimo, il cristiano è già sacramentalmente "morto con Cristo", per vivere di una vita nuova; e per chi muore nella grazia di Cristo, la morte fisica consuma il "morire con Cristo" e compie così l'incorporazione dell'uomo a Cristo nel suo atto redentore (n. 1010).

Il cristiano può arrivare a provare nei riguardi della morte un desiderio simile a quello di San Paolo: "il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo" (Fil 1,23); e può trasformare la propria morte in un atto di obbedienza e di amore verso il Padre, sull'esempio di Cristo.

La morte è la fine del pellegrinaggio terreno dell'uomo, ed insieme è quindi la fine del tempo della grazia e della misericordia che Dio gli offre per realizzare la sua vita terrena secondo il disegno divino e per decidere il suo destino ultimo. Non c'è reincarnazione dopo la morte (n. 1013).

La Chiesa incoraggia i fedeli a prepararsi all'ora della propria morte, e a chiedere di essere liberati dalla morte improvvisa; quotidianamente poi fa loro chiedere alla Madre di Dio di intercedere per essi "nell'ora della nostra morte" (Ave Maria) e ad affidarsi a san Giuseppe, patrono della buona morte (n. 1014).
Nella liturgia

La Chiesa celebra per i fedeli defunti il Rito delle esequie, nel quale esprime la visione cristiana della
«Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un'abitazione eterna nel cielo. »
  
(Prefazio dei defunti I)

Le esequie cristiane sono celebrate nel segno della speranza certa della vita eterna e della risurrezione della carne.
Note

    ↑ Josef Finkenzeller (1990) 447.
    ↑ Amilcare Giudici (1985) 968.
    ↑ Pierre Grelot (1971) 737.
    ↑ Josef Finkenzeller (1990) 448.
    ↑ Can. 2, DS 372.
    ↑ Cfr. II Concilio di Lione, Lettera dell'imperatore Michele al papa Gregorio X, 6 luglio 1274, DS 856-858; Benedetto XII, Costituzione Benedictus Deus, 29 gennaio 1336, DS 1000.
    ↑ DS 1512.
    ↑ DS 1978.
    ↑ La formulazione più netta di tale teoria afferma che con la morte l'anima cessa di esistere; nella sua forma più mitigata sostiene che essa sopravvive in una specie di esistenza soporifera e di sogno.
    ↑ http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_19790517_escatologia_it.html
    ↑ Cfr. Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 28.
    ↑ Spiega più avanti (n. 1008) lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica che
    « 
    sebbene l'uomo possedesse una natura mortale, Dio lo destinava a non morire. La morte fu dunque contraria ai disegni di Dio Creatore ed essa entrò nel mondo come conseguenza del peccato. "La morte corporale, dalla quale l'uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato" (GS, 18), è pertanto "l'ultimo nemico" (1Cor 15,26) dell'uomo a dover essere vinto. »
    ↑ Gaudium et spes, 18.

Bibliografia

    Catechismo della Chiesa Cattolica 988-1019
    Josef Finkenzeller, Morte, in Wolfgang Beinert (cur.), Lessico di teologia sistematica, Queriniana, Brescia 1990, ISBN 9788839900876, p. 447-450
    Marcolino Daffara, Lorenzo Spinelli, Giuseppe De Ninno, Eugenio Battisti, Alberto Stefanelli, Morte, in Pio Paschini (cur.), Enciclopedia Cattolica, Ente per l'Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, Città del Vaticano, 12 voll., 1948-1954, vol. VIII, 1952, c. 1427-1442
    Pierre Grelot, Morte, in Xavier Léon-Dufour (cur.), Dizionario di Teologia Biblica, Marietti, Casale Monferrato, 1971, ISBN 9788821173028, c. 731-742
    Amilcare Giudici, Morte, in Giuseppe Barbaglio, Severino Dianich (cur.), Nuovo Dizionario di Teologia, Edizioni Paoline, Milano 1985, ISBN 8821504778, p. 961-975