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    PATÌ SOTTO PONZIO PILATO

    Dopo la concezione di Gesù e la sua nascita, il Credo passa direttamente alla sua morte, saltando a piè pari la sua vita. I nomi di Maria e di Pilato sono citati uno dopo l’altro in una prossimità che colpisce. Maria e Pilato, una dissonanza ardita. Mediante loro due il Figlio di Dio si è veramente incorporato alla nostra umanità: alla nostra razza umana mediante la sua madre umana, Maria; alla nostra storia umana, civile e politica, mediante Ponzio Pilato.

    Maria ... Pilato: l’amore che fa vivere Gesù, l’egoismo che lo fa morire; la madre di Dio, l’assassino di Dio; l’umanità, la migliore e la peggiore: noi tutti.

    Patì. Cristo non ha cercato la croce, non ha torturato se stesso. Anzi di fronte alla passione ha sudato sangue, ha gridato la sua paura, ha supplicato di essere liberato dalla morte (cfr. Mt 26,36-42; Lc 22,39-44). "Nei giorni della sua vita terrena egli (Cristo) offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono" (Eb 5,7-9)

    Patì. È forse questa la risposta di Dio al mistero della sofferenza degli uomini? Ogni uomo cozza duramente contro la sofferenza, non se ne sa dare una ragione e non ne vede l’utilità per nessuno: né per sé, né per gli altri, né tanto meno per Dio. Allora perché? Per chi?

    Trecento anni prima di Cristo, Epicuro faceva questo ragionamento: "O Dio vuol sopprimere il male e non può, e allora è impotente... Oppure non vuole e non può, e allora è un niente... Oppure può sopprimere il male e non vuole, e allora è maligno... O, infine, può e vuole, e allora dov’è questo Dio e da dove viene il male?...".

    I filosofi cristiani, pagani e atei hanno tentato delle spiegazioni: è il loro mestiere. Cristo, il giusto, non tenta nessuna giustificazione della sofferenza e della morte. Le combatte per distruggerle definitivamente. La ribellione degli uomini è anche la sua. Guarisce i malati, risuscita i morti, lotta per gli umiliati, perdona ai peccatori... A tutti insegna: "Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica... Siate misericordiosi... Non giudicate... Non condannate... Perdonate" (Lc 6,27-37). E di tutto quanto ha insegnato ne dà l’esempio levando alto il suo grido di "vendetta" contro i suoi carnefici: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34).

    Anche i discepoli di Cristo cercarono spiegazioni davanti al cieco nato. Gesù non dà spiegazioni: lo guarisce (cfr. Gv 9,1-7).

    Di fronte a ogni sofferenza si possono prendere vari atteggiamenti, reagire in svariate maniere, ma tutto può ridursi a due comportamenti fondamentali: fare o filosofare. Cristo ha scelto il primo e lo ha comandato anche a noi. Sui fatti verterà il suo giudizio nei confronti del mondo e di noi stessi alla fine dei tempi: sulla nostra preoccupazione effettiva di porre fine alle sofferenze degli affamati, degli assetati, di chi non ha vestiti, degli stranieri, degli ammalati, dei prigionieri (cfr. Mt 25,31-46).

    Per i filosofi il male è un problema; per Cristo e per i cristiani è un nemico, uno scandalo, una provocazione; ed esige una protesta, una mobilitazione, una rivolta. Non si spiega il male, lo si combatte!

    Dobbiamo renderci conto che Dio vede la sofferenza in modo diverso dal nostro. Dio ha una concezione molto positiva sulla sofferenza come mezzo, al punto che egli accoglie per se stesso il dolore come strada necessaria. Ai discepoli di Emmaus Gesù spiega: "Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?" (Lc 24,26). E agli apostoli: "In verità, in verità, vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12,24).

    Secondo il modo di vedere di Dio e nell’esperienza di Gesù, la sofferenza della passione sfocia nella gloria della risurrezione, la morte di uno è la vita di tutti.

    L’uomo non sa assolutamente liberarsi dal suo egoismo di grano sterile e pensa di trovare la vita conservandola per sé. Gesù insegna: "Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita, per causa mia, la troverà" (Mt 10,39).

    La sofferenza dell’uomo e del mondo è un radicale mutamento, una spinta urgente verso una vita diversa e migliore. Per questo è lacerazione, sbriciolamento, trauma, morte. È una legge generale. Morte della crisalide che diventa farfalla, annientamento dell’uovo che diventa pulcino, marcire del chicco che diventa spiga e messe, sgomberare il terreno dalla baracca per costruirvi un grattacielo. Dice il prefazio della liturgia eucaristica funebre "Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata una abitazione eterna nel cielo".

    Il mistero pasquale è il passaggio (Pasqua significa passaggio!) da una vita all’altra. La vita terrena deve essere necessariamente snidata dalla sua tranquillità, sottoposta a un passaggio, segnato dal sangue, verso la morte, ultima tappa prima della vita eterna. Il cristiano sa che questi dolori sono le doglie del parto per la nascita di un mondo nuovo: "Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi... Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo" (Rm 8, 18-23).

    La madre vuole i dolori del parto; li vorrebbe anche il figlio se sapesse che rappresentano la condizione perché da embrione diventi un uomo: "La donna, quando partorisce, è afflitta perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia. In quel giorno non mi domanderete più nulla" (Gv 16,21-23).

    L’uomo si supera solo attraverso la sofferenza.

    Vivere è amare; amare è morire. Amare significa uscire da se stessi, dimenticarsi, sacrificarsi, cancellarsi, negarsi, per gli altri. La morte rappresenta l’annullamento completo di sé; se è accettata, è il vertice dell’amore. La morte per gli altri è la sola testimonianza irrefutabile d’un amore senza egoismo. Dio muore per amore verso gli uomini; l’uomo è chiamato a morire per amore verso Dio e verso i fratelli. È questo l’amore infinito perché "nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15,13).

    Sfortunatamente il nostro amore non è infinito, non è libero dall’egoismo, non è puro. La sofferenza è il solo mezzo per la nostra purificazione, il mezzo per ridurre in noi stessi l’egoismo e generarvi l’amore. La sofferenza non è qualcosa di accidentale o di incidentale, ma è la via. Per il credente, la sofferenza non è assolutamente un’assenza di Dio, ma una presenza d’amore. L’autore della "Imitazione di Cristo" dice: "Senza dolore non si vive nell’amore".

    "Come nessuno ama Dio senza soffrire, così nessuno vede Dio senza morire... Nessuna volontà è buona se non è uscita da sé per lasciare tutto lo spazio all’invasione di quella di Dio" (Maurice Blondel).

    Gesù non ha subìto una morte qualsiasi per motivi indefiniti. Fu arrestato, giudicato, condannato e ucciso per motivi precisi e da poteri ben determinati.

    Il conflitto fra Gesù e i capi del popolo scoppia violento fin dai primi incontri (Mc 1,6-12; 3,1-6) e diventerà sempre più insanabile, fino all’uccisione di Gesù. Il complotto degli uomini contro Gesù prende tutto il vangelo e sfocia in due processi lungamente particolareggiati. Gesù crocifisso non è altro che Gesù condannato dai poteri civili e religiosi.

    Gesù perde il processo religioso davanti alla sua chiesa: è un falso profeta. Il Dio che egli rivela, il Dio che egli è o pretende di essere, non è il Dio della sua chiesa ebraica.

    Gesù guarda l’uomo, i suoi interessi, la sua salvezza. Per i suoi avversari invece sono importanti la legge, la tradizione, la burocrazia, le scartoffie... I suoi avversari non si preoccupano affatto dei peccatori, dei poveri, ma solo della legge e della sua applicazione. Gesù proclama: "Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!" (Mc 2,27). L’uomo religioso di allora faceva di Dio il nemico dell’uomo. La rivolta di Gesù contro i padroni della legge (scribi, farisei, sadducei, classi dominanti) è una rivolta in favore dei piccoli, oppressi da un giogo insopportabile. Le sette lamentazioni rivolte agli scribi e ai farisei: "Guai a voi, scribi e farisei ipocriti" (Mt 23,13-32) con le motivazioni addotte, sono un ottimo quadro riassuntivo della situazione di allora.

    Gesù perde il processo civile davanti all’autorità politica. Pilato dichiara ben tre volte: "Io non trovo in lui nessuna colpa" (Gv 18,38; 19,4.6), ma "ebbe paura crescente" (Gv 19,8) "e lo consegnò loro perché fosse crocifisso" (Gv 19,16).

    Dio è condannato dai poteri. Condannato perché vuole essere libero e liberatore. Il peccato del mondo è soprattutto il potere che schiaccia il debole e condanna l’innocente; il potere pubblico o privato che domina invece di servire, che sfrutta invece di amare.

    Fu chiesto a Raoul Follereau: "Quando scriveste a Krusciov e a Eisenhower, che, se avessero rinunciato a un apparecchio da bombardamento ciascuno, si sarebbero potuti curare tutti i lebbrosi del mondo, avete avuto risposta? Rispose: No... Nella potenza e nella ricchezza esiste un confine oltre il quale non si è più né americani né russi, né cristiani né atei: si è potenti, si è ricchi; si è disumanizzati".

    Pilato, davanti a Gesù, si richiama alla sua autorità: "Non sai che io ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?" (Gv 19,10). Ma Gesù rifiuta l’assoluto di questa autorità, ne subisce le inique conseguenze senza ribellarsi e s’incammina verso il Calvario portando la sua croce.

    L’insegnamento di Cristo è inequivocabile: "Io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due..." (Mt 5,39-41).

    Secondo Cristo il rimedio contro le forme di oppressione e contro l’arroganza dei poteri politici e religiosi non è la lotta, ma la debolezza e l’umiltà dell’amore, la debolezza e l’umiltà di Dio. Il solo rimedio è uccidere l’odio, prima di tutto nel proprio cuore.

    Su questa linea è l’insegnamento della Chiesa: "Oggi gli uomini aspirano a liberarsi dal bisogno e dalla dipendenza. Ma questa liberazione s’inizia con la libertà interiore che essi devono ricuperare dinanzi ai loro beni e ai loro poteri; essi mai vi riusciranno se non tramite un amore che trascenda l’uomo e, di conseguenza, tramite una effettiva disponibilità al servizio. Altrimenti, e lo si vede fin troppo, anche le più rivoluzionarie ideologie otterranno soltanto un cambio di padroni: insediati a loro volta al potere, i nuovi padroni si circondano di privilegi, limitano le libertà e permettono che si instaurino altre forme di ingiustizia" (Paolo VI, Octogesima adveniens, 45; 14 maggio 1971).

    «La Chiesa reputa certamente importante e urgente edificare strutture più umane, più giuste, più rispettose dei diritti della persona, meno oppressive e meno coercitive, ma è cosciente che le migliori strutture, i sistemi meglio idealizzati diventano presto inumani se le inclinazioni inumane del cuore dell’uomo non sono risanate, se non c’è una conversione del cuore e della mente di coloro che vivono in queste strutture o le dominano. La Chiesa non può accettare la violenza, soprattutto la forza delle armi, né la morte di chicchessia, come cammino di liberazione, perché sa che la violenza chiama sempre la violenza e genera irresistibilmente nuove forme di oppressione e di schiavitù più pesanti di quelle dalle quali essa pretendeva liberare. Lo dicemmo chiaramente nel nostro viaggio in Colombia: "Vi esortiamo a non porre la vostra fiducia nella violenza né nella rivoluzione; tale atteggiamento è contrario allo spirito cristiano e può anche ritardare, e non favorire, l’elevazione sociale alla quale legittimamente aspirate" (Discorso ai campesinos, 23-8-1968); "Dobbiamo dire e riaffermare che la violenza non è né cristiana né evangelica e che i mutamenti bruschi o violenti delle strutture sarebbero fallaci, inefficaci in se stessi e certamente non conformi alla dignità del popolo"» (Discorso per la "Giornata dello sviluppo" Bogotà 23-8-1968) (Paolo VI; Evangelii nuntiandi, 36-37; 8 dicembre 1975).

    "La liberazione che proclama e prepara l’evangelizzazione è quella che Cristo ha annunziato e donato all’uomo mediante il suo sacrificio" (Paolo VI; EN. 38).

    La passione e morte di Cristo ci vengono presentate dalla Bibbia come sacrificio, riscatto, redenzione, salvezza, remissione dei peccati ecc.

    Il prezzo di questo riscatto e di questo acquisto è stato il sangue di Cristo. "Abbiamo la redenzione mediante il suo sangue" (Ef 1,7). "Cristo Gesù ha dato se stesso in riscatto per tutti" (1Tm 2,6). "Tu (Cristo) sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione" (Ap 5,9). "Siete stati comprati a caro prezzo" (1Cor 6,20; 7,23).

    Nella messa ci viene ripresentato il corpo di Cristo "offerto in sacrificio" per noi e il sangue di Cristo "versato per tutti in remissione dei peccati".

    Il sangue (= la vita) di Cristo non è stato versato come riscatto al diavolo: non si tratta di una transazione commerciale per l’acquisto dell’umanità, per il passaggio di proprietà da satana a Dio. Non è neppure un prezzo pagato a Dio per "soddisfare" la sua giustizia o la sua collera. Dio non è un giustiziere sanguinario, un usuraio rapace a cui non interessa la provenienza del riscatto, che sacrifica l’innocente (Cristo) al posto del colpevole (l’umanità) purché qualcuno paghi e gli restituisca il suo avere. Se "Dio è amore" (1Gv 4,8) dobbiamo eliminare dal mistero cristiano tutto quanto non è amore, tutti i residui delle idee pagane che stentano a morire in noi.

    «Quasi tutte le religioni gravitano attorno al problema dell’espiazione; esse si radicano nella coscienza che l’uomo ha della propria colpevolezza davanti a Dio e rappresentano un tentativo di placare il senso di colpa, per vincere il peccato (e la paura) con azioni espiatorie da presentare a Dio. Nel Nuovo Testamento invece la situazione è quasi esattamente capovolta. Non è l’uomo che si accosta a Dio per presentargli un’offerta riparatrice, ma è Dio che si avvicina all’uomo per accordargli un dono. Per iniziativa stessa della sua potenza amorosa, egli restaura il diritto leso, giustificando l’uomo colpevole mediante la sua misericordia creatrice e richiamando alla vita colui che era morto. La sua giustizia è grazia... Qui ci troviamo davvero di fronte alla svolta portata dal cristianesimo nella storia delle religioni: il Nuovo Testamento non dice che gli uomini si riconcilino con Dio, come del resto dovremmo attenderci, perché sono essi che hanno sbagliato, non Dio. Ci dice invece: "È stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo" (2Cor 5,19)» (Joseph Ratzinger).

    Il capitolo 15 di Luca ci dice che non è l’uomo che cerca Dio, ma Dio che cerca l’uomo, lo porta sulle sue spalle e lo accoglie nuovamente nella sua casa: è Dio che si assume il gravoso impegno della reintegrazione del figlio prodigo e della pietà onerosa del samaritano (Lc 10, 29-37). "Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16). Dio si fa uomo, diventa membro a pieno diritto di questa umanità, ne è addirittura il capo, la testa, e in lui l’umanità intera offre a Dio un sacrificio d’amore: l’obbedienza assoluta a Dio, l’adesione a Dio fino alla morte.